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Lug

TESTIMONIANZE: CURZIO MALAPARTE E I CACCIATORI DELLE ALPI

DSC00252Scrive Curzio Malaparte nel 1938 sul ‘Corriere della Sera’:

Che tutti gli Umbri fossero matti, come già m’avevan detto, m’accorsi subito la mattina che scendemmo alla stazione di Perugia, ai primi gi giugno del 1915, e a piedi ci avviammo alla volta della città. M’aspettavo che ci facessero festa: ma la gente che s’incontrava su per la ripida scorciatoia ci guardava con occhio di scherno, fermandosi a ridere al nostro passaggio. Eravamo una ventina, tutti volontari di Prato, tutti ragazzi di diciassette e diciotto anni. Alla caserma Biordo Michelotti ci vestirono di panno grigioverde, ci consegnarono fucile zaino e giberne, e ci misero in riga nel cortile. Venne avanti un caporale e ci disse: “ah! siete volontari? tutti signorine, eh?”. E rovesciando indietro la testa, stralunando gli occhi, si mise a ripetere “papà, mammà” come per fare il verso a una bambola. Tutti ridemmo, più che meravigliati che divertiti. Due piantoni avevano intanto steso per terra una coperta colma di pagnotte. Il caporale prese una pagnotta, se la rigirò fra le mani, e volgendosi a me mi domandò: “ti ha mai fatto male il pane?”. Io gli risposi di no. Il caporale alzò la pagnotta, me la tirò nella testa e disse: “vedi che il pane ti fa male?”. Tutti scoppiarono a ridere, e risi anch’io, tastandomi la fronte percossa. “Certo è matto” pensavo. Poi i due piantoni portarono una marmitta piena di pezzi di carne lessa. Il caporale ficcò la mano nella marmitta, ne trasse un pezzo di lesso, e rivolgendosi al Risaliti, che tre mesi dopo doveva morire al Col di Lana, gli disse gentilmente: “lasciamo gli scherzi. Scommetto che a te la carne fa male”. “A me no – rispose il risaliti – e a te?”. “Come vuoi che mi faccia male? – ribattè quello – Non vedi che ho i galloni?”. “Davvero? – disse il Risaliti – o vediamo un po'” e allungata la mano, che era di carne anche quella, gliela lasciò andare sul viso, disse “era carne con l’osso!”. E rideva. “E’ proprio matto” pensai fra me. Non era matto: era di Gubbio. E mi accorsi poi, nei tre anni che rimasi nella Brigata Cacciatori delle Alpi, in gran parte formata di soldati umbri, che non soltanto quelli di Gubbio, ma quelli di Perugia, di Spoleto, di Città di Castello, di Umbertide, di Terni avevan tutti, dal primo all’ultimo, e chi più chi meno, un ramicello di quella singolare pazzia che molti, chi sa mai perché tengono in conto di misticismo, e chiamano spirito virgiliano, ascetico, serafico, francescano (…).

Poi, dopo un mese trascorso nel convento di Monte Ripido, partimmo per il fronte: e furon quattro anni di guerra, sul Col di Lana, sulla Marmolada, sul Grappa, sulle rive del Piave e dell’Aisne, nei boschi di Bligny e di Verdun, sulle quote pelate dell’Asolone e dello Chemin des Dames. Tutti matti, non c’era da dubitarne: ma più degli altri quelli di Gubbio e di Città di Castello, che dicevano “tulì”, che dicevano”tulà”, che dicevano”tascpène, capitèno, mi ha fatto mèle” e si aizzavano, si mordevano, si azzuffavano tra loro, sempre ridendo, sempre vociando, ed erano i più strani soldati che io avessi mai potuto immaginare. Quelli di Assisi eran mezzi frati e mezzi contadini, camminavano con gli occhi per aria, ma non c’era pericolo che inciampassero, tanto erano abituati a considerare il cielo come un riflesso della terra, anzi dei loro campi e delle loro vigne. Quelli di Spoleto sembravano eremiti sbucati allora alloa dalle speloche e dalle selve spoletane, stavan di vedetta in ginocchio tra due sassi, come se pregassero, sparavano fucialete come se sparassero al demonio. Quelli di Terni parlavano a bocca torta, erano i più rabbiosi, gli nici in fatto di arrabbiature, di bizze e di spregi, capaci di tener testa a quelli di Perugia e di Umbertide. Lenti e tranquilli gli Orvietani, e facevan razza con quelli di Todi: gente ferma, cupa, chiusa, ma piena, al tempo stesso, di capricci, d’invenzioni, d’umori bizzarri. Ero soldato semplice anch’io, vivevo in mezzo a quei matti sotto la tenda, nelle buche, fra le rupi e gli abeti, dietro i ripari di sacchetti di terra, ascoltando i loro strani discorsi, osservando i loro gesti strani, con un sentimento che da principio era di sospetto e di meraviglia, e a poco a poco veniva mutandosi in una simpatia cordiale e misteriosa, come se io pure fossi preso dalla loro stessa pazzia.

Una volta, a un tale che s’era buttato per terra sotto una raffica di mitragliatrici, uno di Gubbio gridò; “che male vuoi che ti faccia una palla nello stomaco, con la salute che hai?”. Un tal altro, di Umbertide, per certo torto che credeva di aver patito da un graduato, si tolse una scarpa, e per rabbia se la mise trai denti, cominciò a morderla, se la voleva mangiare, e se non gliel’avessero tolta di bocca se la sarebbe ingoiata tutta. Un altro, ferito durante l’attacco al Sasso di mezzodì, lo stesso giorno in cui morì Enzo Valentini di Perugia, si trascinava indietro urlando non di dolore, ma di rabbia. Ogni po’ si voltava verso il nemico, sputava in aria, gesticolava, rideva: e a un compagno che, con suo grave rischio, era accorso a portargli aiuto, diede un gran pugno nella testa, gridando: “ficca il naso negli affari tuoi!” e seguitò a trascinarsi per terra ridendo, sputando, vociando, e facendo sotto le raffiche delle mitragliatrici i più strani versi del mondo. Finchè vomitò sangue, e tacque. Tutti così, tutti matti. Erano uomini pieni d’estro e di coraggio meravigliosi, e, insieme, di pazienza. Ma anche quella straordinaria pazienza era una forma della loro pazzia.

Assalto TrinceeNon si lamentavano mai, nè per la fame, nè per la sete, nè per gli stenti, nè per le ferite. Lavoravano, combattevano, sempre scherzando e ridendo, sermpre beffandosi e azzuffandosi tra loro. Pareva che, invece di essere stati chiamati lassù a combattere un comune nemico, si fossero riuniti per conto loro in quei boschi e su quei mondi per seguitare le loro burle e le loro liti di famiglia e di paese. Non davanouna grande importanza alla morte, e neppure alla vita in se stessa: ma ai fatti, ai discorsi, alle cose della loro esistenza di tutti i giorni. Erano così poco preoccupati e ansiosi della vita futura (tanto gli Umbri sono dviersi come se li immaginano gli inventori della ‘mistica Umbria’ che parlavano di morire come se si fosse trattato di andare in licenza invernale. Discorrevano di Dio e dei Santi con una singolare familiarità, ma senza ombra di sacrilegio: come di persone di famiglia, come di compaesani. Per quelli di Gubbio, Dio era di Gubbio. Per quelli di Passignan del Lago, Dio era di Passignan del Lago.

A Bligny, il terzo giorno della battaglia, quando orami tutto il bosco era pieno di migliaia di morti e di feriti, ed eravamo rimasti sen’acqua, senza pane, senza cartucce, senza bombe a mano, senza mitragliatrici, il cappellano del 52° Reggimento, Don Secondo, rincuorava i superstiti dicendo: “Dio vi guarda, ragazzi”. Un tale gli gridò: “digli che ci avesse a dà una mano!” era come se si rivolgesse non a Dio, ma a un loro ufficiale, come se chiedessero cartucce e bombe al loro Colonnello. In quel mentre il nemico tornò per la ventesima volta all’assalto con le sue tanks e i suoi lanciafamme, e tutti quei matti gli si buttarono addosso, vociando e sghignazzando. S’udivan tra gli alberi, nell’immenso bosco pieno di fumo, urli di feriti e scoppi di risa, voci terribili e strane. E in realtà il nemico fu fermato, a Bligny, non dal fuoco delle nostre poche mitralgiatrici e dei nostri scarsi cannoni, ma dalla meravigliosa pazzia di quei contadini dell’Umbria”.

Fonte: Curzio Malaparte, Umbria matta in Corriere della Sera, 3 luglio 1938.

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